12/11/13

Jack London: come non amarlo?


Bell'articolo su Jack London di M. Raffaeli, (Alias 23-11-013)
In una delle scene meno rammentate di C’era una volta in America il protagonista, un Noodles ancora adolescente, si barrica nel gabinetto del suo condominio in Lower East Side e prende in mano un libro che penzola dalla finestra legato a una catena: il breve fermo-immagine indugia sul fronte-spizio in caratteri liberty con foto dell’autore nel foglio di guardia e attesta che quello e un romanzo di Jack London, Martin Eden. La sceneggiatura del capolavoro di Sergio Leone colloca la scena nel 1922, quando London é morto da appena sei anni e il romanzo è uscito da tredici ma, paradossalmente, e già tempo di oblio per lo scrittore che aveva inaugurato il secolo americano raffigurandolo in emblema coi caratteri della schiettezza primordiale, di un vivere generoso e dispendioso, incline con la spavalderia tradotta nella presa diretta di una scrittura che di colpo cancellava il formalismo e il rugiadoso sentimentalismo dell’età vittoriana. In appena quarant’anni di esistenza, Jack London (1876-1916) era divenuto un mito letterario ma anche politico, l’erede di Melville e Stevenson o di Poe nell’arte del racconto e nel frattempo il militante del Partito socialista, firmatario per esempio di una favola-incubo, Il Tallone di ferro (1907) che era piaciuta a Trotsky e a lungo, in Europa, sarebbe stata letta come la più lucida profezia del nazifascismo.

Morto probabilmente suicida, in un gorgo di dissipazione e di totale sperpero di se, fra megalomanie e presenzialismo narcisista, sospettato di abiura e conversione al credo americano del successo dai suoi stessi compagni, ‘la belle époque’ non sa dunque che farsene nel 1922 di uno scrittore da bassifondi che molti giudicano rudimentale e populista, ma presto anche i detrattori dovranno ritrovarlo e per la prima volta interrogarne il lascito in tempi di crisi acutissima tra la Grande Depressione e il New Deal: é li che Irving Stone (nel '38, reduce da un fortunato lavoro su Van Gogh, Brama di vivere, ’34) pubblica un profilo uscito in Italia solo nel ’79 dagli Editori Riuniti e ora riproposto col semplice titolo di Jack London (traduzione di Massimiliano Reggia, Castelvecchi  - Ritratti, pp, 374, € 22,00). Se non è per fortuna una cosa romanzata o ammanierata come quelle che firmarono la seconda moglie di London, Charmian Kittredge, nel '21, e sua figlia Joan nel '39, qui non si tratta nemmeno di una biografia in senso storico-accademico: oggi inevitabilmente datata, quella di Irving resta una biografia-ritratto che però utilizza moltissime testimonianze di prima mano e, se non ha particolari ambizioni interpretative, comunque sa discriminate con equilibrio e chiarezza espositiva l’opera di London, che fu grande e diseguale, da un decorso biografico che tutto aveva invece per alterarne la reale fisionomia e confonderne la ricezione in un’aura mitologica. Va sempre ricordato che la bibliografia di London é un prodigio produttivo, nel quale si contemplano qualcosa come 41 volumi pubblicati (fra romanzi, racconti, interventi teorici e saggistici, pamphlet) in 15 anni o poco pin di attività e a un ritmo gestatorio, di cui l‘autore si vantava, di 1.000 implacabili parole scritte al giorno. Il bilancio che Irving Stone suggerisce nel '38 dopo tutto é lo stesso che potrebbe sottoscrivere un lettore di oggi. Alcuni titoli, alla lettera, restano indelebili: fra i racconti, in blocco quelli dedicati al Grande Nord e alla febbre dell’oro (senza i quali non avremmo The Gold Rush di Charlie Chaplin, un dickensiano ma anche Londoniano ad honorem), cosi come in dittico Il richiamo della foresta e Zanna Bianca (1903-’06), o quelli sulla boxe, vera e propria epopea darwiniana, che includono lo splendido Una bistecca; fra gli scritti di ispirazione sociale, oltre al menzionato Tallone di ferro, un presago reportage sul proletariato dell’East End londinese,  Il popolo degli abissi (1903), che non sfigura accanto alla classica inchiesta di Friedrich Engels; e poi, ovviamente, Martin Eden, il romanzo americano per eccellenza, un testo di evidente proiezione autobiografica dove il senso più avventuroso della ricerca esistenziale si vincola a una lucida, impietosa, critica dell’american way of life. Irving Stone, ed è questa la parte più interessante del suo lavoro, indugia sugli anni di formazione di London: non tanto sui mille mestieri del ragazzo di Oakland dai dubbi natali ma senz’altro di origine irlandese, bello e atletico, gaudente e spaccone che, afflitto dalla malattia cronica della “miseria”, fu via via un marinaio razziatore di ostriche, mozzo, fochista, operaio, inviato di guerra, cercatore d’oro, proprietario di ranch, esploratore dei Mari del Sud, quanto, specialmente, sul suo apprendistato culturale che si è soliti ascrivere all’eclettismo di un autodidatta. 

Eclettico e autodidatta, senz’altro, ma fino a un certo punto  perché l'orizzonte culturale di London (che pure fu per tutta Ia vita un lettore vorace, onnivoro) si calcola meglio in verticale che non in orizzontale: a dispetto delle apparenze non c’é  grande affollamento, perché suoi maestri risultano da ,un lato i campioni del realismo/naturalismo (Balzac, Zola, Melville, Stevenson, Kipling), dall'altro alcuni scienziati e filosofi riuniti dal credo materialista come Darwin, Spencer, Marx, Nietzsche. Il determinismo o persino il monismo del suo sguardo sulla realtà é in effetti e di continuo contraddetto dagli impulsi libertari di chi vuole scampare alla regola ferrea (interesse, profitto, destino di classe) che governa ‘le cose del mondo’: rimane una contraddizione, precisamente rilevabile negli scritti politici, ma è la stessa che in un bilico vertiginoso fissa la verità di Martin Eden, un personaggio scisso e fisicamente sacrificato dalla dinamica dello struggle for life nel momento medesimo in cui il suo individualismo, il sogno americano, ambirebbe a trionfare. (Tutti ricordano il finale del romanzo, che è un’ultima discesa agli inferi, anzi un annientamento travestito da apoteosi; cosi nella versione di Giovanni Baldi, Garzanti 1989: <<Dov’era? Gli sembrò di trovarsi in un faro; era invece il suo cervello che emanava una luce bianca, accecante, che roteava sempre più  veloce. Seguì  un suono cupo e rombante che lo precipitò giù per una smisurata tromba di scale, al fondo della quale, a un certo punto, cadde nella tenebra. Questo solo capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell’istante in cui seppe, cessò di sapere>>).

London  fu o volle essere o presunse di essere, pari a qualunque scrittore americano fra il XIX e il XX secolo, un testimone della realtà codificata in Natura ma seppe essere, a momenti, uno straordinario interprete della Storia che in quella stessa immagine, presuntamente naturale, era invece cifrata o occultata. London non é affatto uno scrittore innocente ma, semmai, un eterno ritorno per gli americani: Ernest Hemingway, John Dos Passos e compagni, nella Grande Depressione, torneranno a lui e a lui tornano, più o meno onestamente, più o meno astutamente, i seguaci della docufiction nella nuova Depressione ormai globalizzata. Ha da offrire come sempre le sue pagine spoglie, un ritmo libero e sghembo, un’idea del sublime dal basso che lega in istantanea, e in massa, lo scrittore e il lettore. Tutto questo, a sua volta, non è affatto innocente: tuttavia, nello stato di cose presenti, come si fa a non amare Jack London, come è possibile dimenticarlo?


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